di Patrizia Creazzo
Nelle diverse tappe evolutive, ciascun bambino sperimenta situazioni diverse che possono suscitare in lui paura.
La paura è un’emozione primaria (come la gioia, la rabbia, la tristezza, il disgusto), non è qualcosa che apprendiamo nel corso della vita ma la sentiamo perchè è presente nel nostro patrimonio genetico. Le emozioni primarie sono definite tali proprio perché riconoscibili a livello transculturale e transgenerazionale e hanno permesso alla specie vivente di sopravvivere, garantendo un legame positivo con l’ambiente e con gli altri esseri viventi.
La paura ha un significato adattivo: le sue reazioni fisiologiche ci consentono di metterci al riparo dai pericoli. Nei bambini la paura si manifesta in maniera differente in base al periodo evolutivo e alle differenze personali.
Nei primi tre anni di vita i bambini si possono paragonare a dei piccoli esploratori: attraverso i loro sensi e grazie alla loro curiosità si imbattono in nuove esperienze, imparando così a conoscere il mondo che li circonda. Muovere i primi passi permette loro di spostarsi nello spazio in maniera autonoma e di acquisire nuove competenze. Le prime forme di linguaggio aumentano i momenti di condivisione e le attività ludiche offrono opportunità di apprendimento che consentono al bambino di comprendere, gradualmente, la distinzione tra sé (come persona) e l’ambiente.
Tutte queste conquiste, tanto allettanti e stimolanti, mettono il bambino anche nella condizione di conoscere la possibilità di essere da solo di fronte a qualcosa di sconosciuto. Il timore principale di questo periodo di vita è proprio questo: rimanere da soli senza l’aiuto e il supporto dei genitori.
In questa fase di vita gli adulti possono sostenere, con la loro iniziale vicinanza e il loro supporto, il comportamento esplorativo del loro bimbo. Per il bambino sapere che l’adulto è accanto è nello stesso tempo un incoraggiamento e una garanzia di avere conforto nel momento in cui il comportamento esplorativo dovesse tramutarsi in una possibile fonte di disagio. Per imparare a orientarsi nel mondo, i bambini hanno bisogno di tempo. L’adattamento a questa età è lento (si dice spesso che i bambini hanno bisogno di routine, di tempi strutturati e organizzati) e cambiamenti a volte troppo repentini possono causare incertezza e quindi timore.
Nell’età prescolare il bambino aumenta le proprie competenze e con l’ingresso nella scuola dell’infanzia si ampliano le esperienze di vita comunitaria e di scambio sociale. In questo periodo, si sviluppa anche la “teoria della mente” dell’altro: i bambini imparano a riconoscere nell’altro gli stati d’animo.
Situazioni nuove, sulle quali non è possibile avere il controllo (cambio casa, separazioni per periodi di tempo lunghi, malattia ecc), possono far nascere una serie di paure come la paura di stare da solo, la paura del buio, la paura del temporale o di alcuni animali.
Anche in questa fase il genitore può aiutare il bambino confortandolo e iniziando a nominare l’emozione dandole un significato: spiegare ai bambini che avere paura è normale in alcune situazioni particolari, permette loro di comprendere meglio quello che sta succedendo dentro di sé. Il conforto del genitore inoltre permette al bambino di sentirsi compreso e quindi al sicuro.
Nell’età scolare il bambino aumenta la propria autonomia, il suo pensiero si sviluppa diventando sempre più riflessivo, le esperienze sociali si moltiplicano e si caricano sempre più di significati, il suo ruolo all’interno della comunità cambia rendendosi più attivo. Inizia così a costruirsi un’idea di sé in base alle esperienze vissute, sviluppando un dialogo interiore.
La paura principale, in questo periodo di vita, è quella di ritrovarsi in situazioni ostili nelle quali potrebbe sentirsi non accettato, giudicato o preso in giro. Per gli adulti la prima cosa da fare è, nuovamente, quella di riconoscere l’emozione e darle un valore, non solo attraverso una spiegazione razionale, ma attraverso un’immagine o un ricordo passato che possa far percepire al bambino quanto l’emozione provata sia naturale e simile a quella percepita in altre situazioni. In tal modo l’adulto facilita l’acquisizione di consapevolezza e può fungere da modello insegnando al bambino a trovare una soluzione al problema.
Non bisogna dimenticare che i bambini spesso faticano ad esplicitare quello che sentono o a raccontare quello che stanno vivendo. Spesso quindi trasformano il loro disagio emotivo in comportamenti a prima vista inadeguati o in sensazioni corporee (sintomi psicosomatici come il mal di pancia, ecc). La cosa migliore è che gli adulti imparino presto a riconoscere tali situazioni in modo da aiutare il bambino ad osservare e ad esplicitare proprio quei pensieri che causano tensione e malessere corporeo, ritrovando serenità.